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Siamo abituati a pensare all’intelligenza come una caratteristica geneticamente determinata, stabile nel tempo ed oggettivamente misurabile attraverso il quoziente intellettivo (QI).

Un recente e prestigioso studio (Mani e colleghi, 2013) apparso sulla rivista scientifica SCIENCE racconta un’altra interessante storia.

I raccoglitori di canna da zucchero del Tamil Nadu (India) per metà dell’anno, cioè prima dei raccolti, versano in condizione di povertà. Subito dopo i raccolti la loro situazione economica migliora e si trovano un una situazione di relativa ricchezza.

Cosa succede alla loro intelligenza? Alle loro capacità di ragionamento e di prendere decisioni?

Cambiano in modo importante: si potrebbe grossolanamente dire che risultano “stupidi” nei test fatti prima del raccolto e decisamente intelligenti nei test fatti subito dopo il raccolto, cioè quando smettono di essere poveri.

I ricercatori che hanno condotto lo studio hanno escluso altre possibili spiegazioni quali la fatica fisica o le preoccupazioni per l’andamento del raccolto.

Cosa succede con l’età? Performance lavorative e capacità cognitive.

Le performance lavorative diminuiscono realmente con l’ età?
La questione è controversa e i dati a sostegno delle varie ipotesi sono difficilmente comparabili.
Si dovrebbe distinguere come minimo tra quantità e qualità della performance, poiché con l’età tende a diminuire la prima a favore della seconda.
Naturalmente, poi, dipende dal tipo di lavoro. In quei lavori in cui sono necessarie le capacità che tipicamente diminuiscono con l’età (forza fisica, velocità di esecuzione, memoria, attenzione, ecc) e contemporaneamente l’esperienza porta solo un piccolo vantaggio, la performance lavorativa tende a diminuire drasticamente.

E’ interessante però notare come l’età faccia aumentare soprattutto la variabilità individuale. Alcune persone infatti, a parità di condizioni lavorative, rimangono innovative e produttive molto più a lungo.
E questo è un vero rompicapo per gli scienziati che sanno spiegare il declino, ma faticano a spiegare come, di fronte alle fisiologiche modificazioni dovute legate all’età molte persone conservino ottime performance cognitive.

Un’ipotesi intrigante è che questi adulti bilancino il naturale declino neuronale con una riorganizzazione delle funzioni celebrali, grazie ad una continua compensazione e all’utilizzo di strutture celebrali che prima non venivano usate per quelle specifiche funzioni.
Cosa permetta questa riorganizzazione rimane una domanda senza risposta.
Ci sono una serie di fattori associati al mantenimento delle funzioni cognitive: stimolazione intellettuale, la qualità delle interazioni sociali, la scolarità, la cosiddetta riserva cognitiva.

Inaspettatamente (almeno per me) alcuni studi recenti individuano nell’attività fisica aerobica un ingrediente fondamentale per il buon funzionamento cognitivo (ad esempio Hillman, C. H., Erickson, K. I., & Kramer, A. F. “Be smart, exercise your heart: exercise effects on brain and cognition”. Nature Reviews Neuroscience, 2008).

Non si tratta solo di una versione moderna del latino mens sana in corpore sano . L’attività fisica pare avere effetti diretti sulla plasticità neuronale, sulla capacità del nostro cervello di imparare e riorganizzarsi in tutte le fasi della nostra vita. In particolare, l’attività fisica sembra migliorare processi quali la capacità di pianificare, la memoria di lavoro, la capacità di lavorare in modalità multitasking e di far fronte ad ambiguità, funzioni fondamentali per un invecchiamento attivo e sano, anche dal punto di vista lavorativo.

La capacità di costruire narrazioni negli anni precedenti all’inizio delle scuole elementari è considerata uno dei migliori predittori delle performance scolastiche, soprattutto per quei bambini considerati a rischio fallimento scolastico ((Paul & Smith, 1993). La capacità di narrare richiede infatti ai bambini competenze cognitive sofisticate. Innanzitutto è necessaria la capacità di produrre farsi concatenate che contribuiscono a costruire un insieme coerente e portatore di significato. Inoltre, la capacità di narrare richiede di saper gestire la dislocazione spaziale e temporale (pensiero astratto), poiché si descrivono eventi non presenti nel qui e nell’ora. Si parla a questo proposito di linguaggio decontestualizzato, considerato cruciale negli apprendimenti scolastici (Feagans, 1983, Snow, 1989; Crais & Lorch,1994).

Il racconto di esperienze personali sembra particolarmente utile per sviluppare il linguaggio decontestualizzato perché ci si riferisce costantemente ad eventi avvenuti nel passato (e quindi non presenti qui e ora), ma anche perché è un’abilità che si può esercitare già a partire dai due anni (Fivush, Gray & Fromhoff, 1991; Miller & Sperry, 1995). Narrare eventi della propria storia personale, inoltre, favorisce le capacità metacognitive, cioè le capacità di rappresentare se stessi, le proprie emozioni e il proprio funzionamento interiore.

Sappiamo che le capacità di costruire narrazioni dipende almeno in parte dal contesto socio-economico (McCabe, 1996). Tuttavia, il fattore cruciale che davvero sembra fare la differenza è l’input parentale, cioè la qualità delle conversazioni tra genitori e bambini.

Alcuni genitori, ad esempio, tendono ad estendere ogni argomento discusso dai bambini, favorendo elaborazioni e connessioni sulla base di domande che sollecitano l’emergere di nuovi dettagli. Altri, invece, tendono a passare velocemente da un argomento all’altro, fare poche domande o domande ripetitive, con pochi riferimenti ad altri eventi. E’ stato dimostrato che questi diversi stili di gestione delle conversazione da parte dei genitori influenzano sia la quantità sia la qualità dei racconti che i bambini producono.

Peterson e colleghi (1998) hanno dimostrato che lavorando sulle capacità degli adulti di sostenere e sollecitare le narrazioni dei bambini è possibile aumentarne la quantità e qualità, intesa come lunghezza, coerenza e quantità di informazioni veicolate. Miglioramento che viene mantenuto anche negli anni successivi all’intervento. Inoltre, i bambini mostrano un aumento significativo dell’ampiezza del loro vocabolario.

Diversi studi epidemiologici e clinici hanno mostrato che l’obesità è un importante fattore di rischio sia per malattie potenzialmente mortali (come malattie cardiovascolari e diversi tipi di tumori), sia per patologie non letali, ma debilitanti o comunque in grado di compromettere la qualità di vita della persona obesa (come il diabete di tipo due, disturbi del sistema respiratorio come asma e sindrome delle apnee notturne, o patologie a carico del sistema muscolo-scheletrico come osteoartrite e gotta) (Bosello e Cuzzolaro 2006; OMS-FAO 2003).
L’obesità non impatta solamente sul benessere fisico delle persone, ma anche sul loro benessere psicologico e sociale (OMS 2000; 2007). Discriminazioni e stereotipi, a loro volta possono impattare non solo sul benessere psicologico delle persone obese (Carpenter et al. 2000; Stunkard e Sorensen 2003; Haug et al. 2006), ma anche sul loro benessere fisico, visto che sentimenti di ansia e stress che si generano in situazioni di discriminazione innescano meccanismi fisiologici negativi (la cosiddetta «risposta scappa o combatti») (Puhl e Brownell 2003; 2006).
L’ obesità quantomeno nei paesi occidentali, risulta sproporzionatamente diffusa negli strati inferiori della società (Sobal e Stunkard 1989; McLaren 2007). Sembra un paradosso dire che l’obesità ha chiare basi genetiche (Allison e Faith 1997; Maes et al. 1997; Mutch e Clement 2006; Price 2004) ed è cruciale tenere in considerazione il ruolo che i fattori genetici hanno nello spiegare le differenze individuali in termini di Indice di Massa Corporea (IMC). I fattori genetici sono importanti anche quando si adotta una prospettiva socio-economica nello studio delle disuguaglianze di stratificazione dell’obesità. È molto probabile che gli stessi geni abbiano effetti differenti in ambienti diversi, ovvero che esista un’interazione tra geni ed ambiente (cf. Dobzhansky 1975; Plomin et al. 1977; 2004). In questo caso è possibile che i geni predisponenti all’obesità riescano a trovare espressione soprattutto negli ambienti più «obesogenici» ovvero, come vedremo, quelli delle classi. Vi sono almeno due elementi che concorrono a sostenere l’ipotesi ambientale. Innanzitutto, il fatto che l’epidemia di obesità sia esplosa negli ultimi venti anni, un lasso di tempo in cui è impossibile che siano avvenute nella popolazione alterazioni genetiche tali da giustificare la portata dell’epidemia (Bosello e Cuzzolaro 2006; Price 2004). In secondo luogo, corroborano l’ipotesi ambientale anche diversi studi condotti su popolazioni native che sperimentano un’occidentalizzazione dello stile di vita e parallelamente un aumento nella prevalenza di obesità (Bosello e Cuzzolaro 2006; Ravussin 1995).

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